La categoria dei luoghi inventati riprende una delle quattro categorie ideate da Frank Zipfel nel 2001 e poi concettualizzate da Barbara Piatti nel 2008, sulla base del grado di dipendenza dei luoghi finzionali da quelli geospaziali (Zipfel 2001; Piatti 2008). Per Barbara Piatti gli invented places sono tutti i luoghi inventati creati all’interno di realtà geograficamente familiari (Reuschel-Hurni 2011, 296). Le ambientazioni inventate del corpus si distribuiscono in modo omogeneo nel corso del tempo: la prima occorrenza compare nel 1948 (il paesino di Sant’Alcide (1) in cui è ambientato il racconto Isabella e Fioravanti); l’ultimo, nel 1982, è Casa Palomar (2), la dimora cittadina del protagonista del libro che porta il suo nome.
Osservando la visualizzazione, si nota anche come questa distribuzione riguardi tutte le tipologie di opere: i romanzi, i racconti confluiti in raccolta e i testi pubblicati su periodici e poi rimasti inediti. Prendendo singolarmente in esame le tre differenti sezioni si evidenziano tuttavia delle caratteristiche molto diverse. Vediamo quali.
La prima sezione, quella dei romanzi, è senza dubbio quella in cui si registra la maggior concentrazione di luoghi inventati, con più della metà delle opere (5 su 10) che presentano almeno un’ambientazione di questo tipo. È noto che la vena immaginifica di Calvino si sviluppi maggiormente nelle opere più estese del corpus, anche in virtù del complesso rapporto dell’autore con il genere del romanzo inteso in senso tradizionale: «Calvino è sempre stato un narratore che non sente il romanzo, che persino ne diffida. Narratore anti-romanzesco: nel senso che la problematica sociale e morale, la scienza della vita quotidiana come microstoriografia, che caratterizzano il romanzo moderno, sono sempre stati fuori del suo orizzonte» (Berardinelli 1991, 39). Si pensi alle storie della Trilogia degli antenati, ambientate tra gli alberi di Ombrosa e i boschi di Terralba. Oppure alle città visionarie e simboliche esplorate da Marco Polo nelle Città invisibili, o ancora, ai luoghi dai nomi impronunciabili – Petkwo, Kudgiwa, Oquedal – in cui si muovono i personaggi di Se una notte d’inverno un viaggiatore. Il modo in cui queste ambientazioni fantastiche si inseriscono nel tessuto narrativo delle storie merita uno sguardo più attento.
Le visualizzazioni del secondo e del terzo livello di analisi mostrano come in molti casi i luoghi d’invenzione intrattengano uno stretto dialogo con quelli reali e riconoscibili. Pensiamo, ad esempio, al Visconte dimezzato, primo libro della Trilogia. Il racconto si apre in Boemia, durante la guerra cristiana contro i Turchi, ma la storia principale si sviluppa a Terralba, terra natale del visconte Medardo, il quale, colpito da una palla di cannone ma miracolosamente salvo per metà, fa ritorno a casa. Terralba si trova in Italia e appartiene alla Repubblica di Genova: è dunque all’interno di uno spazio reale e definito che hanno luogo le avventure fantastiche del protagonista.
In apparenza questo non accade nel Barone rampante, ambientato nel libero comune di Ombrosa, territorio-mondo del baronetto Cosimo Piovasco di Rondò. Tuttavia, pur senza essere esplicitamente incorniciata all’interno di un luogo localizzabile, anche Ombrosa è in qualche modo legata alla Repubblica di Genova, di cui è comune tributario. Pertanto, seppur in modo meno evidente, anche nel caso del Barone rampante lo spazio fantastico si intreccia a quello storico.
Il fatto poi che Terralba e Ombrosa siano in qualche modo riconducibili alla Liguria, terra natale di Calvino, è doppiamente significativo. Nel 1965 lo stesso scrittore, con lo pseudonimo-anagramma di Tonio Cavilla, sottolinea l’importanza del paesaggio ligure sullo sfondo del Barone rampante: «Il romanzo si svolge in un paese immaginario, Ombrosa, ma ci rendiamo presto conto che questa Ombrosa si trova in un punto imprecisato della Riviera ligure» (RR, III, 1228-29). Evocare il paesaggio ligure, che per Calvino è il paesaggio per eccellenza, assume allora la precisa finalità di riallacciamento lirico con un passato mitizzato, in polemica con le trasformazioni edilizie che avevano deturpato la Liguria del dopoguerra (cfr. ivi, 1229).
Un discorso diverso, ma non così lontano, può essere fatto per Le città invisibili, l’opera che raccoglie il maggior numero di ambientazioni fantastiche. Le varie Eufemia, Zora, Despina sembrano così rarefatte che è facile credere di trovarsi fuori dal tempo e dallo spazio. Invece, anche in questo caso, Calvino non rinuncia a una cornice storica, poiché tutte e cinquantacinque le città visitate da Marco Polo appartengono allo sterminato impero storicamente esistente di Kublai Khan.
Selezione di racconti scritti a metà degli anni Cinquanta
Nella forma breve, sia che si tratti di racconti pubblicati in volume sia che si tratti di testi usciti su periodici e poi non più raccolti, la diffusione di luoghi inventati è decisamente inferiore. Tuttavia, come mostra la visualizzazione, si rilevano alcune zone di concentrazione: una, in particolare, più interessante delle altre.
Tra la fine del 1953 e l’inizio del 1954, dopo aver pubblicato sull’«Unità» di Torino il primo blocco di storie che andranno a comporre Marcovaldo, Calvino scrive una serie di testi brevi di natura molto diversa, accomunati dall’incedere favolistico e dalla presenza di ambientazioni fantastiche. Due di questi testi (Un paese disgraziato, 1953; Il generale in biblioteca, 1953) compaiono ancora sull’edizione torinese dell’«Unità»; gli altri tre (Libertà! Libertà!, 1954; Lo jus primae noctis, 1954; I mozzatori di nasi, 1954), scritti l’anno successivo, sono pubblicati sul settimanale «Il Contemporaneo» in una rubrica intitolata I viaggi di Gulliver all’interno della quale Calvino raccolse alcuni apologhi politici con riferimenti evidenti all’attualità.
Ciò che accomuna tutti questi testi è la presenza di un’ambientazione unidimensionale – un generico paese senza nome o luoghi d’invenzione come Sant’Alcide, Marzalia, Panduria, Cocinindia o Atrabilia – «dedita a una sola cosa, che sottostà a una sola regola, che conosce un solo modo d’essere» (Serra 2006, 322). Nella quasi totalità dei casi questa situazione iniziale viene messa a dura prova da un accadimento inatteso, che scombina l’ordine delle cose e da cui si ricava spesso un insegnamento o una morale.
L’aspetto più interessante di questi racconti scritti a metà degli anni Cinquanta è il fatto che sia possibile riconoscere in nuce, pertanto in forma acerba e a tratti elementare, alcuni elementi fondanti delle Città invisibili: l’ambientazione unidimensionale, la regola o il carattere sui generis che connota la città, i nomi dei luoghi esclusivamente femminili.
In filigrana si riconosce un percorso organico e continuativo, che affonda le radici in un tempo piuttosto remoto e trova il suo compimento negli anni Settanta del Novecento.